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capitolo ventesimoprimo. 469

con un nuovo congegnarsi delle forze nazionali, al vecchio difetto di scarsa partecipazione al movimento italiano. Mancò a ciò l’opportunità, o la forza, o la mente. Venezia, come ebbi campo a dire in addietro, rimase una città del Medio Evo, colle apparenze d’uno Stato moderno. Ma le apparenze non durano a lungo; e poichè non aveva voluto o potuto diventar nazione, le convenne per forza scadere alla condizione di semplice città. Così nell’economia politica come nella fisiologia medica, bisogna deprimere e ridurre un corpo invaso da umori corrotti a quella parsimonia naturale, onde poi risorga ordinatamente alla piena salute.

Venezia in quei primi rivolgimenti che le tolsero ogni appiglio in terraferma, chiudendole piucchè mai le vie insuete del mare, rimase a dir poco in fil di morte. Quando poi tornò la pace, e il mare le fu sbloccato dinanzi, le forze erano sì misere, da non poter competere con quelle degli altri porti, che s’erano anzi ringagliardite durante la sua indolenza. «Rive opposte, animi contrarii» dice un proverbio inglese. Trieste entrava in lizza arditamente spalleggiata dal commercio viennese, e cogli ajuti del governo che o disperava o non si curava di richiamare l’attività veneta al campo primitivo de’ suoi trionfi. Venezia si chiudeva melanconica e dolorosa fra le moli marmoree, come il principe scaduto, che si rassegna a morire d’inedia per non tender la mano.

Infatti dopo essersi atteggiata fino agli ultimi tempi come protettrice d’Europa contro i Turchi, dover chiedere altrui armi e denaro per mandare quattro stambecchi a caricar fichi a Corfù, l’era un gran boccone amaro da ingojare. Si stette dunque, ma non si sapeva bene se rimuginando il passato, o maturando un futuro. «Prima che la statistica aprisse i suoi registri, disse un ottimo pubblicista, ciascun paese credeva d’essere quello che avrebbe voluto essere.»