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capitolo ventesimo. 455

— Ed io ti ripeto ancora che o non ti ricordi bene, o dopo tanti anni non conosci per anco la Pisana. Ma non capisci che tutti quelli che tu chiami dolori, patimenti, sacrifizii, erano per me piaceri ineffabili, colmi d’una voluttà tanto più dolce, quanto più nobile e sublime? Non capisci che l’indole mia strana e mutabile mi portava forse a stancarmi dei piaceri più comuni, e a cercare in un’altra sfera anche a rischio di perdermi, contentezze diverse e diletti che non avessero paragone nella mia vita passata? Non hai ravvisato il primo sintomo di questa, direi quasi, pazzia in quel mio incredibile e tirannico capriccio di sposarti all’Aquilina?... Oh te ne scongiuro in ginocchio, Carlo!... Perdonami di averti amato alla mia maniera, di aver sacrificato te ad un mio ghiribizzo strano e inconcepibile, di non aver cercato nella tua vita altro che un’occasione di appagare le mie strane fantasie!... Tu non potevi capirmi, tu dovevi odiarmi, e invece mi hai sopportato!... Quando negli ultimi anni io trovava tanta dolcezza nell’assisterti, e nel nasconderti l’amor mio dandoti ad intendere che solo la necessità e la compassione mi movevano, non doveva io conoscere che con questo contegno ti tormentava, e che toglieva il maggior valore a quei pochi servigi che poteva renderti?... Ciò nulla ostante io seguitai a far pompa della mia barbara delicatezza, mi ostinai in quel sistema di virtuosa vanità in cui col tuo matrimonio avea segnato il primo passo, volli il piacer mio prima di tutto, ad ogni costo!... Vedi, vedi, Carlo, se fui cattiva ed egoista? Non avrei fatto meglio a confidarmi nella tua generosità tanto maggiore e più provata della mia, e dirti: ho sbagliato, Carlo! ho sbagliato per sbadataggine, per bizzarria! Ora i nostri doveri son questi! Adempiamoli d’accordo senza ipocrisia e superbia? — Ma io diffidai di tè, Carlo! Te lo confesso coll’umiltà della vera penitente!... Il tuo amore sì grande, sì magnanimo, non meritava una sì tri-