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442 le confessioni d’un ottuagenario.

poneva rispetto. Quando Lucilio mi portò il passaporto ottenuto per mezzo dell’Ambasceria austriaca, le domandai se quel nostro divisamento le piaceva.

— Oh la mia Venezia! — rispose; — mi domandate se la vedrei volentieri!... Dopo il paradiso l’è il mio solo desiderio.

— Or bene — soggiunsi — quand’è, dottore, che mi permetterete di aprir la finestra, di buttar via queste bende, e d’andarmene?

— Dopodimani — rispose Lucilio — ma quanto all’imprendere il viaggio bisognerà soprastare qualche giorno; non dovete arrischiarvi così subito al sole del mezzodì. —

Io pazientai quei due giorni, deliberato di non protrarre d’un attimo la mia partenza quando avessi avuto gli occhi nulla nulla guariti. Ma la Pisana in quel frattempo frequentava meno che mai la mia stanza, e mi dicevano che stava quasi sempre rinchiusa nella sua. Finalmente venne Lucilio che mi liberò la fronte dalla visiera, e mi sciolse dai legacci che mi coprivano gli occhi; le finestre erano già socchiuse; e una luce quieta diffusa come quella del crepuscolo mi accarezzò dolcemente le pupille. Se tanto ci incanta lo spettacolo dell’alba, quantunque rinnovato ogni ventiquattr’ore, figuratevi quanto mi facesse beato quell’alba che succedeva ad una notte di quasi due anni!... Ritrovare ancora quei facili godimenti dei quali non ci curiamo potendoli avere ad ogni istante, e tanto se ne apprezza il valore quando ci sono vietati, ravvivare coll’esercizio presente la memoria di quelle sensazioni che già cominciava a svanire, come una tradizione che coll’andar del tempo diventa favola, saziarsi ancora nelle contemplazioni di quanto v’ha di bello, di grande, di sublime al mondo, e interpretare dagli affetti dei nostri cari un linguaggio disusato per noi, son tali piaceri che fanno quasi desiderare d’esser ciechi per racquistare la