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440 le confessioni d’un ottuagenario.

S’avvicinava il giorno, nel quale Lucilio avrebbe adoperato i mezzi più squisiti dell’arte per risuscitarmi alla luce. Egli non mi parlava della Pisana, e questa mi sfuggiva sempre per quanto cercassi ammaliarla colle più tenere carezze. Perfino l’Aquilina ne era gelosa; ma pensando a quanto essa aveva operato per me, non aveva coraggio di lamentarsene. Il silenzio di Lucilio non mi pronosticava nulla di bene, e le rare parole di conforto ch’egli mi volgeva, io le attribuiva più che a sincerità a premura di tenermi calmo pel giorno della gran prova. Fui beato quando potei dire: sarà dopodimani. Mi batteva il cuore poi al pensare che sarebbe dimani. Quando dissi — è oggi! — fui assalito da tanta impazienza, che credo sarei morto se avessero protratto d’altre ventiquattr’ore. Lucilio si accinse all’opera con ogni voluto accorgimento; si trattava non d’un malato ma d’un amico; se potevasi pretendere un prodigio si era certamente da lui, e certo non gli fallì la fede del paziente. Quando mi disse: — è finito! — avevano già intercetto la luce delle porte e delle finestre, perchè l’improvvisa sensazione non mi offendesse. Tuttavia mi parve travedere e travidi infatti un incerto barlume, e misi uno strido tale che Bruto e l’Aquilina che mi sostenevano diedero un guizzo. Rispose un fievole grido della Pisana che credette forse a qualche disgrazia, ma la rassicurò Lucilio soggiungendo scherzosamente:

— Scommetto io che il briccone ha già veduto qualche cosa! ma mi raccomando che non ispostiate questa visiera che gli accomodo ora; e sopratutto che le imposte restino chiuse come sono, ermeticamente. L’operazione è riuscita così appunto, che presagisco fin d’ora che le sei settimane di convalescenza potranno ridursi a quattro.

— Oh grazie, grazie, amico! Sollecitate più chè potete! — io sclamai coprendogli le mani di baci. Più che di avermi reso la vista, lo ringraziava di quella speranza datami di