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capitolo ventesimo. 439

tarla. Si trattava dei nostri figli, massime di Luciano, al quale quella mezza parola di un’andata in Grecia avea racceso nel cuore un tale entusiasmo che non pareva possibile calmarlo. Ella non si era opposta in sua presenza, perchè nè voleva mostrarsi d’un parere contrario al mio, nè rintuzzare palesemente quella fiera gagliardia del giovine, ma in segreto poi mi confessava che le sembrava un consiglio precipitato e Luciano troppo tenerello ancora per esporsi senza rischio ad una vita avventurosa. Meglio era dunque ristare per poco finchè fosse più maturo, ed aspettare dal tempo ispirazioni più sincere.

Queste considerazioni mi parvero giustissime; le approvai dunque pienamente lodandola della sua magnanimità e prudenza; e anche a me infatti non andavano mai a sangue le deliberazioni avventate per mera fanciullaggine, che conducono sovente ad una precoce sfiducia in noi e negli altri. Così fra noi restammo d’accordo; ma nell’altra stanza intanto Luciano e Donato non parlavano d’altro che d’Atene, di Leonida, dello zio Spiro e dei cugini: non vedevano l’ora di schierarsi in campo anch’essi e di menar le mani contro quei turchi manigoldi. Soltanto Donato si commiserava talvolta di dover lasciare sua madre, mentre i cugini loro l’avevano in Grecia testimone delle loro prodezze.

— Nostra madre ci starà sempre nel pensiero per animarci a imprese grandi e generose — rispondeva Luciano. — Sai com’erano fatte le madri spartane?... Esse godevano di procrear figli per poterli offrire alla patria; e porgendo loro lo scudo dicevano: «O con questo tornate, o sopra questo!» Il che significava: o vincitori o morti; perchè sullo scudo si adagiavano i corpi dei caduti per la patria. —

Così scaldavano a vicenda i due giovinetti; e ognuno sognava o l’eroica gloria di Botzari o la morte sublime di Tzavellas.