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capitolo ventesimo. 417

grassi e sicuri dividendi. Questo pure non è possibile; ma qual differenza coi sublimi e generosi slanci d’una volta!...

Un povero cieco, e una donna avvezza fin’allora a tutti i commodi dell’oziosa nobiltà veneziana, v’immaginerete dunque come potessero vivere, in quel gran turbine soffocante e affaccendato che è Londra. I profughi politici non godevano d’un certo favore, nè la moda ne avea fatto una specie curiosissima di bestie da serraglio. Ci facevano pagare perfin l’acqua che si beveva, e meno gli scarsi aiuti mandatici da casa, la Pisana a tutto dovea provvedere. Ma cosa son mai a Londra tre in quattrocento ducati, che mi potevano capitare in un anno da Venezia, e da Cordovado!... Miserie! massime poi colla mia infermità che la Pisana voleva curare sempre, e coi consulti dei medici più riputati; benchè io, sfidato d’ogni soccorso dell’arte, ne la rimproverassi come d’un lusso affatto inutile.

Le sue assenze da casa si facevano sempre più frequenti e lunghe; il mio umore diventava tetro e sospettoso; ella, poveretta, per correggermi montava in collera, e allora cominciavano gli alterchi e le dissensioni. Toccava a me, è vero, l’arrendermi e il tacere, come debitore di tutto che le era; ma alle volte mi pareva aver diritto a qualche maggior grado di confidenza, e sapete che quella appunto che vien negata, sembra essere la cosa unicamente desiderabile. Allora m’incaponiva di volerla spuntare; ella imbizzarriva dal suo lato, e non sempre questi diverbi finivano all’amichevole. Sovente ella partiva dalla camera pestando i piedi e brontolando della mia diffidenza: mai una volta ch’ella mi tacciasse perciò di cattiveria o d’ingratitudine. E sì che le ne diedi sovente l’occasione. Intanto io aveva campo di fare l’esame di coscienza, di ravvedermi e di prepararmi, calmo e pentito per quando la sarebbe tornata.

— Carlo, — mi diceva ella — ti sei rifatto buono?...