Pagina:Le confessioni di un ottuagenario II.djvu/415


capitolo ventesimo. 407

Il giorno appresso dopo aver dormito, lo confesso, con qualche inquietudine, udii venire pel corritoio alcuni passi che non erano nè di guardie nè di carcerieri. Quando apersero dunque la porta mi aspettava il confessore, o qualche cameriere del boia che venisse a tondermi il capo o a misurarmi in collo. Niente di tutto ciò. Entrarono tre figure lunghe lunghe, nere nere, l’una delle quali trasse di sotto al braccio una carta, la spiegò lentamente, e cominciò a leggere con voce tronfia e nasale. Mi pareva udire Fulgenzio quando recitava l’epistola, e questa reminiscenza non mi diede piacere alcuno. Tuttavia era tanto persuaso di dover morire l’indomani, tanto occupato di osservare quei tre scuriscioni, che non mi curai di dar retta a quanto leggevano. Mi fermò solamente l’attenzione la parola grazia.

— Cosa? — diss’io sguizzando tutto.

«Così si commuta la pena di morte in quella dei lavori forzati in vita da subirsi nella galera di Ponza» continuava il nasaccio parlatore del signor cancelliere.

Allora capii di che si trattava, e non so se me ne consolassi, perocchè tra la morte e la galera ci vidi sempre pochissima differenza. I giorni appresso poi ebbi campo a convincermi che se ci aveva qualche vantaggio, era forse dal lato della forca. Nell’isola di Ponza, e precisamente nell’ergastolo ove fu confinato il libero arbitrio della mia umana libertà, non si può dire che abbondassero i commodi della vita. Uno stanzone lungo e stretto guernito di tavolate di legno per coricarsi, acqua e zuppa di fagiuoli, compagnia numerosissima di ladri napoletani e di briganti calabresi; per soprammercato legioni d’insetti d’ogni stirpe e qualità, che le maggiori non ne ebbe addosso Giobbe quando giaceva sul letamaio. Fosse effetto di chi ci mangiava addosso o degli scarsi e pitagorici alimenti, fatto sta che si pativa la fame; i guardiani dicevano che l’aria di