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capitolo ventesimo. 405

Il nostro assalto fu subito e vigoroso, ma manchevole per lo scarso numero degli assalitori: i cannoni tuonavano e menavano un orribile guasto nelle nostre file. Di quei bravi siciliani uno solo rimase vivo, e fu prigioniero alla bocca d’un obice. Tornammo al secondo scontro, ma i più erano disanimati; ci rispose una grandine di palle, le ordinanze si ruppero, i volontari si sbandarono, feriti e morti rimasero in buon numero sul terreno; e già stava lor sopra la cavalleria nemica che ruinava fremebonda. Il generale ebbe tempo di rifuggir quasi solo ad Aquila, dove avea fatto capo il resto dell’esercito; ma scoraggiato affatto pel primo disastro, e per la fallita fazione di Rieti. Per me, ferito profondamente in una spalla, usai ogn’arte per nascondermi, per trascinarmi entro una macchia, ma alcuni bersaglieri mi scopersero; fui fatto prigioniero, e scoperto non essere napoletano, condotto al Quartier generale per esservi esaminato. Avanzando poi coll’esercito imperiale, ebbi mano a mano contezza delle rotte di Aquila e di Antrodoco.

Nel marzo fui condotto a Napoli, accasato pulitamente in Castel Sant’Elmo, e consegnato ad un tribunal di guerra perchè si decidesse della qualità del mio delitto. Infatti l’aver io combattuto volontariamente per un governo costituzionale che non era il mio, fu ritenuto crimine di alto tradimento. E poichè fui sanato della ferita, mi lessero un bel mattino la mia sentenza di morte. Io nulla aveva scritto a casa, perchè, secondo me, va sempre bene ritardar altrui la notizia di sventure irreparabili; mi disposi dunque a morire colla maggior rassegnazione, solo spiacentissimo di non veder la fine di quel tristo capitolo di storia. Vennero anche ad offrirmi pulitamente la grazia, se voleva dire chi mi aveva mandato e perchè era venuto; ma a queste indiscretissime domande rispondeva abbastanza l’atto di morte di mio padre datato da Molfetta, e