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398 le confessioni d’un ottuagenario.

Partistagno colla moglie; in verità aveva proprio ragione: quella sua baronessa somigliava proprio una cavalla; tanto aveva lunghe le braccia, le gambe, il muso. Tuttavolta Raimondo Venchieredo le faceva la corte. Costui mi vide appena, che s’imbucò nella stanzuccia più scura del caffè Suttil a leggere attentamente la Gazzetta. Era invecchiato, livido, brutto come un vizioso marcio; nè io credo che se la guazzasse molto largamente, dappoichè suo padre insieme coll’Ormenta aveva avuto la giubbilazione a metà soldo. Questi due decrepiti finivano assai male la loro vita subdola e ladronesca; ma l’avvocato stava a miglior partito perchè suo figlio era allora a Roma, dicevasi, in missione diplomatica, e ne aspettava grandissimo aiuto. Certo non piansi di lasciar a Venezia una tal gentaglia; ma mi dolse che quando partii, l’Aglaura era più che mai afflitta dal suo male di debolezza e di melanconia. Povera donna! Chi avrebbe riconosciuto allora il bel marinaio, che m’aveva accompagnato da Padova a Milano al tempo della Cisalpina!