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capitolo decimonono. 391

amico; così pure il conte non potè reggere allo spettacolo di quella rovina, e toccati que' pochi quattrini se ne tornò a Venezia. Ve lo richiamava anche la malattia di sua madre, che cominciava a dar gravi timori. Appena sgomberi i cortili dalle pietre spaccate a forza di piccone, e dalle macerie ragunatevi a montagne durante la demolizione, cominciò monsignore a sentir più molesto che mai lo scirocco. Una mattina ebbe uno svenimento durante la messa, e dopo d’allora non uscì più della sua camera. Io fui a trovarlo il penultimo giorno di sua vita, gli domandai del suo stato, e mi rispose colla solita solfa. Sempre quel scirocco ostinato!!... Tuttavia mangiava anche a letto a doppie ganasce, e all’ultima ora aveva il breviario da un lato, e dall’altro mezzo pollastrello arrostito. La Giustina gli veniva domandando: — Non mangia monsignore?... — Non ho più fame! — rispose egli con voce più fioca del solito.

Così morì monsignor Orlando di Fratta, sorridendo e mangiando com’era vissuto; ma almeno si era cavata la fame. Invece sua cognata che gli andò dietro qualche mese dopo, farneticò fino agli estremi di carte e di trionfi; morì sognando vincite favolose, e collo scrigno asciutto e con ogni sua roba al Monte di Pietà. I Cisterna dovettero prestare qualche ducato al conte Rinaldo per farla seppellire, giacchè nè la Clara nè la Pisana avevano un ducato in tasca, e Sua Eccellenza Navagero si commiserava sempre della propria povertà. Tutti se n’andavano, ma costui batteva duro; segno che i miei ardentissimi voti di qualche anno addietro non avevano ottenuto grazia presso Domineddio. La Pisana mi partecipò con assai dolenti parole la morte della madre; e in segreto mi raccontò anche una visita assai impreveduta che avevano ricevuto. Una sera mentr’essa e la Clara recitavano il rosario nella cappella di casa (questa poi dalla Pisana non me la sarei aspettata), s’era annunziato un forestiero che chiedeva premu-