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capitolo decimonono. 383

accompagnata dal cappellano di Fratta, e per correre che facessi non mi venne fatto di raggiungerla. Un’ora dopo, quand’io capitai al castello, era già partita, nè si sapeva se per la strada di Portogruaro o di Pordenone colla carrettella dell’ortolano. Fui imbrogliatissimo di dar ragione all’Aquilina e a Bruto d’una sì precipitosa partenza, ma ebbi la felice idea d’inventar la favola d’una malattia improvvisa della signora contessa, e fui creduto senza fatica. Allora non felice nè immemore, ma tranquillo e rassegnato, mi rimisi alla mia vita di organista e di marito. L’Aglaura e Spiro scrivevano sempre più maravigliati di quella mia improvvisa conversione; io rispondeva celiando che Dio m’avea toccato il cuore: ma sovente si scrive quello che non si sente qua dentro.

I mesi correvano via semplici, laboriosi, sereni come quei cieli d’autunno nei quali il sole abbellisce la natura senza scaldarla. L’Aquilina tutta mia, si rivestiva ogni giorno di nuove grazie, di nuovi pregi per piacermi; la riconoscenza per un amore così nobilmente dimostrato m’inchinava sempre più verso di lei, e rendeva sempre più rari i rimpianti del passato. Il cuore volava ancora talvolta; ma quando la mente instituiva confronti le conveniva confessare che l’Aquilina era la più amabile e la più perfetta fra quante donne io m’avessi mai conosciuto. A lungo andare i giudizi della mente hanno qualche influenza sugli affetti d’un uomo di trentaquattr’anni. Quando poi m’avvidi ch’ella era incinta e quando mi strinsi fra le braccia il bambino più robusto e più roseo che m’avessi mai veduto, e sentii commoversi le mie viscere di padre, e di questa consolazione dovetti confessarmi debitore a lei, allora non seppi più chi mi fossi; ringraziai quasi la Pisana di avermi sforzato a quello strambo spropositato matrimonio. Peraltro la mia memoria non era nè morta nè ingrata. Io voleva avere sovente