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capitolo decimoprimo. 31

Quel giovinetto era un levantino di Zante, figliuolo d’un chirurgo di vascello della Repubblica, e dopo la morte del padre avea preso stanza a Venezia. Le sue opinioni non erano state le più salde in fino allora, perchè si bisbigliava che soltanto alcuni mesi prima gli fosse passato pel capo di farsi prete; ma comunque la sia, di prete che voleva essere era diventato invece poeta tragico; e una sua tragedia, il Tieste, rappresentata nel gennaio allora decorso sul teatro di S. Angelo avea destato entusiasmo per sette sere di fila. Quel giovinetto ruggitore e stravolto aveva nome Ugo Foscolo. Giulio Del Ponte, che non avea fiatato in tutta la sera, si riscosse a quella sua urlata, e gli mandò di sbieco uno sguardo che somigliava una stilettata. Tra lui e il Foscolo c’era l’invidia dell’ingegno, la più fredda e accanita di tutte le gelosie; ma il povero Giulio s’accorgeva di restar soperchiato, e credeva ricattarsi coll’accrescer veleno al proprio rancore. Il leoncino di Zante non degnava neppur d’uno sguardo codesta pulce che gli pizzicava l’orecchio, o se gli dava qualche zuffata era più per noja che per altro. In fondo in fondo egli aveva una buona dose di presunzione, e non so se la gloria del cantor dei Sepolcri abbia mai uguagliato i desiderii e le speranze dell’autor di Tieste. Allora, meglio che un letterato, egli era il più strano e comico esemplare di cittadino che si potesse vedere; un vero orsacchiotto repubblicano ringhioso e intrattabile; un modello di virtù civica, che volentieri si sarebbe esposto all’ammirazione universale; ma ammirava sè sinceramente come poi disprezzò gli altri, e quel gran principio dell’eguaglianza lo aveva preso sul serio, tantochè avrebbe scritto al tu per tu una lettera di consiglio all’imperatore delle Russie, e si sarebbe stizzito che le imperiali orecchie non lo ascoltassero. Del resto sperava molto, come forse sperò sempre ad onta delle sue tirate lugubri e de’ suoi periodi dispe-