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capitolo decimonono. 379

affatto, e che sentii d’un subito nel cuore l’abnegazione stessa della Pisana?... Mi parve di salvare la vita d’una creatura angelica a prezzo della mia, e la coscienza di questa valorosa azione diede al mio aspetto la serena contentezza della virtù. All’Aquilina non parve vero: in prima stentava a credere quello che la Pisana le aveva dato ad intendere, che cioè noi due non ci eravamo amati mai altro che come buoni parenti, ma poi vedendomi presso di lei tranquillo, affettuoso, e alle volte perfino felice, se ne capacitò. Allora non pose più freno agli slanci di gioja dell’anima sua, e mi convenne essergliene grato, se non altro per compassione.

Vedere quell’ingenua creatura rifiorir allora come una rosa inaffiata dalla rugiada, e risorgere sempre più bella e ridente ad un mio sguardo, ad una parola, fu lo spettacolo che mi innamorò non forse di lei, ma di quell’opera miracolosa di carità. La Pisana non capiva in sè pel contento di questi felici effetti, e la sua gioia talvolta m’incaloriva in una virtuosa emulazione, tal’altra mi cacciava nel cuore la fitta della gelosia. Oh qual tumultuoso vortice d’affetti s’accavala e si sprofonda fra le piccole pareti d’un cuore! Anche allora io diedi prova di quell’estrema pieghevolezza, che impresse molte azioni della mia vita d’un colore strano e bizzarro, per quanto la mia indole tranquilla e riflessiva mi allontanasse dalla stranezza e dalla bizzarria. Ma la stravaganza era di chi mi conduceva pel naso; benchè poi non possa dire se in quell’occasione adoperai male, lasciandomi condurre, o se meglio avrei fatto di inspirarmi da me, e di prendere qualche deliberazione contraria. Certo i miei sentimenti, lo dico senza adulazione, toccarono allora l’ultimo segno della generosità; e me ne maraviglio senza pentirmene. Pentirsi d’una azione buona e sublime, per quanto danno ce ne incolga poi, è sempre atto di gran codardia.