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camente dei magri. Ella mise sul tagliere una fetterella di lardo e sei uova, che dovevano convertirsi in frittata e comporre una cena. Ci esibì poi anche, colla bocca un po’ stretta, di prepararci alla meglio due letti; ma noi eravamo già prevenuti delle comodità che si avevano allora in castello, e sapevamo che restando noi sarebbe toccato agli sposini irsene a dormire coi polli. Avemmo perciò compassione di loro e delle sei uova, e risalimmo in calesse per andarcene a chieder ospitalità a Bruto Provedoni, come s’era stabilito fra noi prima di partire da Portogruaro.

Non vi starò ora a dire nè le festose accoglienze di Bruto e dell’Aquilina, nè la mirabile cordialità colla quale quei due poveretti fecero nostra tutta la casa. Tutto era già combinato per lettera; trovammo due camerette a nostra disposizione, delle quali e del mantenimento che volemmo comune con essi, una modestissima dozzina ci sdebitava. Non era una mercede; era un mettere in comune le nostre piccole forze, per difenderci contro le necessità che ci stringevano da ogni parte. L’Aquilina saltellava di piacere come una pazzerella; per quanto la Pisana volesse ajutarla ai primi giorni nelle faccenduole di casa, tutto era sempre pronto ed in assetto. Bruto, uscito il mattino per le sue lezioni, tornava sull’ora del pranzo e c’intrattenevamo insieme fino a notte lavorando, ridendo, leggendo, passeggiando, che le ore volavano via come farfalle sulle ali d’un zeffiro di primavera. M’era scordato di dirvi che a Padova, durante la mia intrinsichezza con Amilcare, io aveva imparato a pestare la spinetta. Il mio squisitissimo orecchio mi fece acquistare qualche abilità come accordatore, e lì a Cordovado mi risovvenni in buon punto di quest’arte imparata, come dice il proverbio, e messa provvidamente da parte. Bruto mi mise in voce nei dintorni come il corista più intonato che si potesse trovare; qualche piovano mi chiamò per l’organo; ajutato dal ferraio del paese e dalla mia sfac-