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capitolo decimonono. 367

chi sa quant’altri affanni, e quanta varietà di venture m’attendevano al varco, prima che tornassi a riporre il piede su quel pavimento crollante e polveroso!... Chi sa se la mano degli uomini o il furore delle intemperie non avrebbero consumato l’opera vandalica di Fulgenzio, e degli altri devastatori rapaci di quell’antica dimora!... Chi sa se un futuro padrone non avrebbe rialzato quelle mura cadenti, rintonacato quelle pareti, e raspato loro di dosso quelle fattezze della vecchiaja che parlavano con tanto affetto, con tanta potenza al mio cuore!! Tale il destino degli uomini, tale il destino delle cose: sotto un’apparenza di giovialità, di salute, si nasconde sovente l’aridità dell’anima e la morte del cuore.

Tornai da basso che aveva gli occhi rossi, e la mente allucinata da strani fantasmi; ma le risate della Pisana e la faccia serena e rotonda di monsignore mi snebbiarono se non altro la fronte. Io m’aspettava ad ogni momento di esser richiesto se aveva imparato la seconda parte del Confiteor. Invece il buon canonico si lamentava che le onoranze non erano più tanto abbondanti come una volta, e che quelle birbe di coloni, invece di recargli i più bei capponi, come sarebbe stata la scrittura, non davano altro che pollastrelle e galletti sfiniti tanto, che scappavano pei fessi della stia.

— E dicono che son capponi — soggiungeva sospirando, — ma se mi sveglio la notte, li sento cantare che ne disgradano l’accusatore di san Pietro!... —

Indi a poco entrò il signor Sandracca col cappellano, invecchiati, mio Dio, che parevano ombre di quello ch’erano stati; entrò anche la signora Veneranda, la madre di Donato, sposata di fresco al capitano. Poteva competere con monsignore per la pinguedine, e non pareva che le settecento lire portate in dote dovessero bastare a tenerla in carne. Gli è vero che i grassi mangiano alle volte più par-