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cui aveva spruzzolata la pelle, e ne divenne più giallo e men bello di prima.

— Signor procuratore, — riprese Lucilio — io sono un semplice cittadino; ma cerco il bene, il vero bene di tutti i cittadini! Dico che si farebbe atto di patria carità e prova d’indipendenza, correndo incontro alle ottime intenzioni degli altri; così si risparmierebbero molti disordini interni, che non mancheranno di intorbidare le cose se ancora si tarda la conclusione del trattato. Io per me sono alieno da qualunque ambizione, e lo vedranno dal posto che mi si è voluto concedere nel quadro della futura municipalità. Il signor Villetard (e acccennava l’ometto irrequieto e rossigno) ha favorito scrivere le condizioni, a tenor delle quali cambiatesi le forme del governo, un presidio francese entrerà a proteggere il primo stabilimento della vera libertà in Venezia... Sono i soliti articoli (prendeva in ciò dire dalla tavola uno scritto e lo scorreva rapidamente): innalzamento dell’albero della libertà, proclamazione della democrazia con rappresentanti scelti dal popolo, una Municipalità provvisoria di 24 veneziani, alla testa dei quali l’ex doge Manin e Giovanni Spada, ingresso di quattromila francesi come alleati in Venezia, richiamo della flotta, invito alle città di terraferma, di Dalmazia e delle isole ad unirsi colla madre patria, licenziamento definitivo degli Schiavoni, arresto del signor D’Entragnes manutengolo dei Borboni, e cessione delle sue carte al Direttorio pel canale della Legazione Francese. Sono tutte cose note e concesse dall’unanime assenso del popolo. Infatti jeri stesso il Doge si dichiarò pronto, in piena assemblea, a deporre le insegne ducali, e a rimettere le redini del governo in mano dei democratici. Noi chiediamo meno di quello ch’ei sia disposto a concedere. Vogliamo ch’egli resti a capo del nuovo governo, arra di stabilità e d’indipendenza per la futura Repubblica: non è vero, signor Villetard? —