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capitolo decimonono. 351

quanto la società mi si mostrasse barbara e nemica. Essi senza parlare prendevano le mie difese al cospetto di Spiro; giacchè egli non poteva serbare il viso torvo ed arroncigliato, con colui che riceveva carezze e baci continui dalla moglie, dai figlioli, dal sangue suo.

Quanto la fiducia de’ miei antichi compagni s’allontanava da me, altrettanto mi venivano incontro mille finezze dell’avvocato Ormenta, di suo figlio, del vecchio Venchieredo, del padre Pendola e dei loro consorti. Il buon padre s’era fatto lui il direttore spirituale in quel ritiro di convertite, del quale il dottorino Ormenta governava l’economia; e ogniqualvolta m’incontravano, erano scappellate, saluti e sorrisacci che mi stomacavano perchè sembravano dire: — «Sei tornato dei nostri! Bravo! Ti ringraziamo!» — Io aveva un bel che fare a sgambettare, a salvarmi da quei loro salamelecchi; ma la gente li vedeva, li vedeva taluno a cui io era in sospetto; le calunnie pigliavano piede, e non c’era verso ch’io potessi sbarazzarmene, come da quelle caldane paludose, dove affondati una volta, per pestar che si faccia si affonda sempre più. Confesso che fui per darmi bell’e spacciato; poichè se io non mi disperai giammai contro nemici certi e disgrazie ben misurate, non ho al contrario potuto sopportar mai un agguato nascosto, e le cupe agonie d’un misterioso trabocchetto. Era lì lì per rinserrarmi in una vita morta, in quella vegetazione che protrae di qualche anno lo sfacelo del corpo, dopo aver soffocate le speranze dell’anima: non vedeva più nulla intorno a me, che valesse la pena d’un giorno misurato a singhiozzi e a sospiri: io non era necessario e buono a nulla; perchè dunque pensare agli altri per sentire peggio che mai il mio crepacuore?........ Così se io non deliberava di rendermi, m' accasciava volontario, e mi lasciava schiacciare dal peso che mi rotolava addosso. Non aveva il furore, ma la stanchezza del suicida.