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350 le confessioni d’un ottuagenario.

si era la perfidia della Pisana verso di me, e il suo invasamento per Raimondo Venchieredo. Che costui poi fosse la causa della mia sventura, non lo potea dire di sicuro, ma amava crederlo per potermi scaricare sopra taluno di quel gran bollore di odio che mi sentiva dentro. Per metter il colmo al mio delirio, ebbi a quei giorni una lettera da Lucilio così agghiacciata, così enigmatica che per poco non la stracciai. Che tutti amici e nemici si fossero data la parola per menarmi all’estremo dell’avvilimento e della disperazione?... Quel colpo poi che mi veniva da Lucilio, dall’amico il di cui giudizio io poneva sopra il giudizio di tutti, da quello che avea regolato fin’allora la mia coscienza, e tenutomi luogo di quella costanza, di quella robustezza che talvolta mi mancavano, un tal colpo, dico, mi tolse perfino il discernimento della mia disgrazia. Cosa non aveva e cosa non avrei io fatto per conservarmi la stima di Lucilio?... Ed ecco che senza dirmi nè il perchè nè il come, senza interrogarmi, senza chiamarmi a discolpa, egli mi dava sentore di avermela tolta. Quali orrendi delitti erano stati i miei?... Qual era lo spergiuro, la viltà, l’assassinio che m’avea meritato una tale sentenza?... Non aveva la mente ordinata a segno da cercarlo. Mi tormentava, mi struggeva, piangeva di rabbia, di dolore, d’umiliazione; la vergogna mi facea tener curva la fronte sul petto; quella vergogna ch’io sapeva di non aver meritato. Ma così fatti sono i temperamenti troppo sensibili come il mio, che sentono al pari d’una colpa la taccia anche ingiusta di essa. La sfacciataggine della virtù io non l’ho mai avuta.

In quei momenti le consolazioni dell’Aglaura diffusero sui miei dolori una dolcezza inesprimibile; per la prima volta avvisai quanto bene stia racchiuso in quegli affetti calmi e devoti che non si ritraggono da noi, nè per mancanza di merito, nè per cambiamento d’opinioni. La mia buona sorella, i suoi figlioletti mi sorridevano sempre per