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346 le confessioni d’un ottuagenario.

cercavano in ogni modo di attirarmi, ed io mi teneva discosto con tutta la prudenza della mia ottima memoria. Dei Frumier il cavaliere di Malta pareva sepolto vivo; l’altro, sposata la donzella Contarini e cacciato avanti nelle Finanze, era arrivato a farsi nominar segretario. L’ambizione lo spingeva per una carriera, a cui per la nuova ricchezza poteva facilmente rinunciare; e con quel suo capolino d' oca, giunto a disegnare la propria firma sotto un rapporto, gli pareva di poter guardare dall’alto in basso i cavalli di San Marco e gli uomini delle Ore. Mi sorprese peraltro assaissimo che tanto lui quanto il Venchieredo, l’Ormenta e taluni altri impiegati dell’usato governo, continuassero ad esser sofferti dal nuovo, o nelle antiche cariche, o in nuovi posti abbastanza importanti e delicati. Siccome peraltro nè cogli usciti nè cogli entranti io aveva a partire la mela, non mi lambiccava il cervello di saperne il perchè. Quello piuttosto che mi dava alcun fastidio, si era che molti degli amici miei, di Lucilio, d’Amilcare, e qualche intriseco di Spiro Apostulos, e mio cognato stesso, mi trattassero alle volte con qualche freddezza. Io non credeva di aver demeritato della loro amicizia; perciò non mi degnava neppure di rammaricarmene, ma uscii a dirne qualche cosa coll’Aglaura e costei si schivò con dir che suo marito avea spesso la testa negli affari, e non potea badare a feste e a cerimonie.

Un giorno mi venne veduto in Piazza un certo muso ch’io non aveva incontrato mai senza alquanto rincrescimento; voglio dire il capitano Minato. Io cercava sfuggirlo, ma me lo impedì dieci pertiche lontano con un ho! di sorpresa e di piacere: e mi convenne trangugiare in santa pace un beverone infinito di quelle sue córse castronerie.

— A proposito! — diss’egli — Son passato per Milano; me ne congratulo con voi. Anche voi siete passato colà a tempo per ereditare le mie bellezze.

— Che bellezze mi tirate fuori?