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capitolo decimonono. 345

poco che ci perdeva di facilità. Anche Spiro e l’Aglaura mi volevano con loro; ma io aveva fitto il capo nella mia casetta di San Zaccaria, e non mi volli movere di là.

Così vissi spensierato d’ogni cosa e beatissimo fino alla primavera, stando il più che poteva alla larga dalla contessa di Fratta e di suo figlio, ma godendo le più belle ore della giornata in compagnia della mia Pisana. La pietà di costei per quel vecchio e malconcio carcame del Navagero trascendeva tanto ogni misura, che talvolta mi dava perfino gelosia. Succedeva non di rado che dopo le visite più nojose ed importune, rimasti soli un momento ella correva via di volo, per cambiare il cerotto o per versar la pozione al marito. Questo zelo in eccesso mi infastidiva e non potea fare che qualche fervida preghiera non innalzassi al cielo, per ottenere al povero malato le glorie del Paradiso. Non c’è caso. Le donne sono amanti, sono spose, madri, sorelle; ma anzi tutto sono infermiere. Non v’è cane d’uomo così sozzo, così spregevole e schifoso, che lontano da ogni soccorso e caduto infermo, non abbia trovato in qualche donna un pietoso e degnevole angelo custode. Una donna perderà ogni sentimento d’onore, di religione, di pudore; dimenticherà i doveri più santi, gli affetti più dolci e naturali, ma non perderà mai l’istinto di pietà e di devozione ai patimenti del prossimo. Se la donna non fosse intervenuta necessaria nella creazione come genitrice degli uomini, i nostri mali, le nostre infermità l’avrebbero richiesta del pari necessariamente come consolatrice. In Italia poi le magagne son tante, che le nostre donne sono si può dire dalla nascita alla morte occupate sempre a medicarci o l’anima o il corpo. Benedette le loro dita stillanti balsamo e miele! Benedette le loro labbra, donde sprizza quel fuoco che abbrucia e rimargina!...

Gli altri miei conoscenti di Venezia non parevano gran fatto curanti di me; ove si eccettuino i Venchieredo che