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capitolo decimonono. 341

Egli mi condusse per prima cerimonia alla cassa, ove mi furono contati sessanta scudi fiammanti per onorario del primo trimestre. Indi mi condusse ad uno scrittojo ove erano molti librattoli unti e sgualciti, e in mezzo un librone più grande sul quale almeno si potevano posar le mani senza sporcarsele. Mi disse ch’io sarei stato per allora il maestro di casa, il maggiordomo della signora contessa, almeno finchè restasse libero un posto più confacente agli alti miei meriti. Infatti, cascare dall’Intendenza di Bologna all’amministrazione d’una credenza non era piccolo precipizio; ma per quanto io sia in origine patrizio veneto dell’antichissima e romana nobiltà di Torcello, la superbia fu raramente il mio difetto; massime poi quando parla più alto il bisogno. Per me sono della opinione di Plutarco, che sopraintendeva, dicesi, agli spazzaturaj di Cheronea, coll’egual dignità che se avesse presieduto ai giuochi olimpici.

La mia carica importava la dimora nel palazzo, e una maggiore dimestichezza colla signora contessa: ecco due cose le quali non so se mi garbassero o no; ma mi proponeva di togliere alla signora la brutta idea ch’ella aveva dovuto farsi di me nella visita del giorno prima. Invece la trovai contentissima di me e delle mie nobili e gentili maniere; in verità che cotali elogii mi sorpresero; e che alle signore milanesi dovessero piacer tanto gli ubriachi, non me lo sarei mai immaginato. Ella mi trattò più da pari a pari che da padrona a maggiordomo, squisitezza che mi racconsolò della mia nuova condizione, e mi fece scrivere all’Aglaura, a Lucilio, a Bruto Provedoni, al colonnello, alla Pisana, lettere piene d’entusiasmo e di gratitudine per la signora Contessa. Verso la Pisana poi io intendeva con ciò vendicarmi della sua trascuratezza, e cercare di stuzzicarla un poco colla gelosia. La strana vendetta ch’ella avea tratto altre volte d’una mia supposta infedeltà,