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perchè gliel’avessi nascosta infino allora; volle consegnarmi a forza quei trenta scudi che aveva e che dopo pagato il conto non rimasero che ventotto; e si fece promettere che in ogni altro bisogno avrei ricorso a lui, che di poco sì, ma con tutto il cuore m’avrebbe sovvenuto.

— Intanto domani io devo partire senza remissione pel campo di Germania; — egli soggiunse — ma parto colla lusinga che questi pochi scudi basteranno, a farti aspettare senza incommodi la prima paga che ti verrà contata presto: forse anco dimani. Coraggio Carlino; e ricordati di me. Stasera devo abboccarmi coi capitani del mio reggimento per alcune istruzioni verbali; ma domattina prima di partire verrò a darti un bacio. —

Che dabbene d’un Alessandro! Era in lui un certo miscuglio di soldatesca rozzezza e di bontà femminile che mi commoveva: gli mancavano le così dette virtù civiche d’allora, le quali adesso non saprei come chiamarle, ma gliene sovrabbondavano tante altre che si potea fare la grazia. La mattina all’alba egli fu a baciarmi ch’io dormiva ancora. Io piangeva per l’incertezza di non averlo forse a rivedere mai più, egli piangeva sulla mia cocciutaggine di volermi rimanere oscuro impiegatuccio in Milano, mentre poteva andar dietro a lui e diventar generale senza fatica. Di cuori simili al suo se ne trovano pochi: eppure egli augurava di gran cuore la morte a tutti i suoi colleghi per avere un grostone più alto sul cappello, e trecento franchi di più al mese. Questa è la carità fraterna insegnata, anzi imposta anche agli animi pietosi e dabbene dal governo napoleonico!

Quando fu ora convenevole io mi vestii con tutta la cura possibile, e n’andai alla ragioneria della contessa Migliana. Un certo signore grasso, tondo, sbarbato, con cera e modi affatto patriarcali, m’accolse si può dire a braccia aperte: era il primo ragioniere, il segretario della padrona.