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capitolo decimonono. 339

imparzialmente, quel dialetto milanese, raccorciato e nasale, non è fatto per ischiarire le idee ad un briaco. In buon punto il Colonnello s’avvicinò alla padrona di casa per accomiatarsi: io non ne poteva più. Essa gli disse all’orecchio che tutto era già combinato, e che ne andassi difilato il giorno appresso alla ragioneria, ove mi avrebbero assegnato il mio compito e dettomi le condizioni del servigio. Io ringraziai inchinandomi e strisciando i piedi, sicchè una dozzina di quei don muti e stecchiti si volse meravigliata a guardarmi; indi battendo fieramente i tacchi al fianco del colonnello m’avviai fuori della sala. L’aria aperta mi fece bene; perchè mi si rinfrescò d’un tratto il cervello, e fra i miei sentimenti si intromise un po’ di vergogna dello stato in cui m’accorgeva essere, e della brutta figura che temeva aver sostenuto nella conversazione della Contessa. Peraltro mi durava ancora una buona dose di sincerità; e cominciai a lamentarmi della fame che avevo.

— Non hai altro? — mi disse il Colonnello. — Andiamo al Rebecchino e là te la caverai. — Non mi ricordo bene se dicesse il Rebecchino; ma mi pare di sì, e che in fin d’allora ci fosse a Milano questa mamma delle trattorie.

Io mi lasciai condurre; me ne diedi una gran satolla senza trar fiato o pronunciar parola, e mano a mano che lo stomaco tornava in pace, anche il capo mi si riordinava. La vergogna mi venne crescendo sempre fino al momento di pagare; e allora stava proprio per rappresentare la commediola solita degli spiantati, di palpar cioè il taschino con molta sorpresa, e di rimproverarmi della mia maledetta sbadataggine per la borsa perduta o dimenticata; quando una più onesta vergogna mi trattenne da questa impostura. Arrossii di essere stato più sincero durante l’ubbriachezza che dopo, e confessai netta e schietta ad Alessandro la mia estrema povertà. Egli andò allora in collera