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capitolo decimonono. 335

di poter pensare mentre pungeva l’appetito: così esaurito quel passatempo mi trovai più infelice di prima, e peggio poi quando passando per Piazza Mercanti mi avvidi che erano appena le cinque. — «Tre ore ancora!» temeva di non arrivar vivo al momento della visita, o almeno di dovervi fare un’assai affamata figura. Diedi opera a svagarmi con un altro stratagemma. Pensai da quante parti avrei potuto aver prestiti, regali, soccorsi, solo che li avessi desiderati. Mio cognato Spiro, i miei amici di Bologna; i trenta scudi del colonnello Giorgi, il Gran Visir... Per bacco! fosse la fame od altro, o un favore particolare della Provvidenza, quel giorno mi fermai più del solito su quell’idea del Gran Visir. Mi ricordai sul serio di avere nel taccuino il vaglia d’una somma ingente, firmato da un certo geroglifico arabo ch’io non capiva affatto: ma la casa Apostulos aveva molti corrispondenti a Costantinopoli, e qualche autorità sui banchieri armeni che scannavano il Sultano d’allora; corsi a casa senza pensar più all’appetito; scrissi una lettera a Spiro, vi inclusi il vaglia, e la portai allegramente alla Posta.

Ripassando per Piazza Mercanti l’orologio segnava sette e tre quarti; m’avviai dunque verso l’alloggio del colonnello; ma la speranza del Gran Visir l’aveva lasciata alla Posta; e proprio sull’istante solenne, fatale, tornava a farsi sentire la fame. Sapete cosa ebbi il coraggio di pensare in quel momento? — Ebbi il coraggio di pensare ai grassi pranzi bolognesi dell’anno prima; e di trovarmi più contento così com’era allora a stomaco digiuno. Ebbi il coraggio di confortarmi meco stesso di esser solo e che il caso avesse preservato la Pisana dal farsi compagna di tanta mia inedia. Il caso? — Questa parola non mi poteva passare. Il caso a guardarlo bene non è altro il più delle volte che una manifattura degli uomini: e perciò temeva non a torto che la smemorataggine, la freddezza, for-