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spopolato; salimmo la scala al dubbio chiarore di un lumicino a olio; nessuno ci aperse, nessuno ci introdusse; somigliavamo una coorte di fantasmi che andasse a spaventare i sonni d’un malandrino. Finalmente entrati in una sala umida e ignuda, ci fu concessa una luce meno avara: e al lume di quattro candele poggiate sopra una tavola, vidi ad una ad una tutte le persone della radunanza e ne distinsi bene o male le fattezze. Eravamo in trenta all’incirca, la maggior parte giovani: ravvisai fra questi Amilcare e Giulio Del Ponte, il primo acceso in volto e coll’impazienza negli occhi, il secondo pallidissimo e con un fare neghittoso che sconsolava. V’era l’Agostino Frumier: v’era anche il Barzoni, giovine robusto, impetuoso, innamorato di Plutarco e de’ suoi Eroi, che scrisse poi un libello contro i Francesi intitolandolo I Romani in Grecia. Tra i più attempati conobbi l’Avogadore Francesco Battaja, il droghiere Zorzi, il vecchio general Salimbeni, un Giuliani da Desenzano, Vidiman, il più onesto e liberale patrizio di Venezia, e un certo Dandolo che aveva acquistato gran fama di sussurrone nei crocchi più tempestosi; gli altri mi erano quasi sconosciuti, benché di taluno non mi comparissero nuove le sembianze. Costoro si stringevano con grande impegno intorno ad un omiciattolo lattimoso e rossigno, che parlava poco e sottovoce, ma agitava le braccia come un primo ballerino. Il dottor Lucilio s’aggirava per la sala muto e pensoso; tutti gli facevano largo rispettosamente e pareva attendessero i comandi da lui solo. Vi fu un momento che il Battaja tentò primeggiar lui colla voce, e attirare a se l’attenzione di tutti; ma non gli badarono; uno scantonò di qua e l’altro di là; chi si raschiava in gola e chi tossiva nel fazzoletto; nessuno si fidava ed egli restò come il corvo dopo ch’ebbe cantato. Così si rimase lungo tempo senza che io potessi capir nulla né dalle mie previsioni, nè dalle parole tronche di Amilcare, nè dai sospiri di Giulio: