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capitolo decimottavo. 327

mie azioni; prima era un operaio povero, affaticato, ma intelligente e libero; allora era un coso di legno bene inverniciato, bene accarezzato, perchè mi curvassi metodicamente e stupidamente a parar innanzi una macchina. Pure volli star saldo per non precipitare un giudizio, certo oggimai che non sarei sceso un passo più giù in quella scala di servilità.

Quando arrivò la notizia del mutamento della Repubblica in un Regno d’Italia, presi le poche robe, i pochi scudi che aveva, andai difilato a Milano, e diedi la mia dimissione. Trovai altri quattro o cinque colleghi venuti per l’egual bisogna, e ognuno credeva trovarne un centinaio a fare il bel colpo. Ci ringraziarono tanto, ci risero sul muso, e notarono i nostri nomi sopra un libraccio che non era una buona raccomandazione pel futuro. Napoleone capitò a Milano e si pose in capo la Corona Ferrea dicendo: «Dio me l’ha data, guai a chi la tocca!» Io mi assettai povero privato nelle antiche camerucce di Porta Romana dicendo a mia volta: Dio mi ha dato una coscienza, nessuno la comprerà! — Ora i nemici di Napoleone trovarono ardimento e forza bastante a toccare e togliergli dal capo quella fatale corona; ma nè la California nè l’Australia scavarono finora oro bastante per pagare la mia coscienza. — In quella circostanza io fui il più veritiero e il più forte.