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326 | le confessioni d’un ottuagenario. |
giorni. Il pacificatore della Rivoluzione metteva anche questa nel novero delle sue imprese future; credeva riconoscerne i segnali in quel nuovo battesimo dato alla Repubblica Cisalpina, che presagiva nuovi ed altissimi destini. Quando Lucilio mi scriveva che s’andava di male in peggio, che abdicando dall’intelligenza un popolo perdeva ogni libertà ed ogni forza propria, che si sperava in un liberatore e avremmo trovato un padrone, io mi faceva beffe delle sue paure; gli dava fra me del pazzo e dell’ingrato, gettava la sua lettera sul fuoco e tornava agli affari della mia intendenza. Credo che mi felicitassi perfino dell’assenza della Pisana, perchè la solitudine e la quiete mi lasciavano miglior agio al lavoro, e alla speranza con ciò di farmi un merito e di avvantaggiarmi. — Viva il signor Ludro!... — Così vissi quei non pochi mesi tutto impiegato, tutto lavoro, tutto fiducia senza pensare da me, senza guardar fuori dal quadro che mi si poneva dinanzi agli occhi. Capisco ora che quella non è vita propria a svegliare le nostre facoltà, e a invigorire le forze dell’anima: si cessa di esser uomini per diventar carrucole. E si sa poi cosa restano le carrucole se si dimentica di ungerle al primo del mese.
Fu sventura o fortuna? — Non so: ma la proclamazione dell’Impero Francese mi snebbiò un poco gli occhi. Mi guardai attorno e conobbi che non era più padrone di me; che l’opera mia giovava ingranata in quelle altre opere che mi si svolgevano sotto e sopra a suon di tamburo. Uscir di là, guai! era un rimaner zero. Se tutti erano nel mio caso, come avea ragione di dubitarne, le paure di Lucilio non andavano troppo lontane dal vero. Cominciai un severo esame di coscienza; a riandare la mia vita passata e a vedere come la presente le corrispondeva. Trovai una diversità, una contraddizione che mi spaventava. Non erano più le stesse massime, le stesse lusinghe che dirigevano le