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capitolo decimottavo. 325

cui volontà soperchiava tanto la volontà di tutti, che con poca spesa d’idee si vedevano le gran belle opere. Adesso invece brillano le idee, ma di opere non se ne vedono nè bianche nè nere; tutto per quel gran malanno che chi ha capo non ha braccia: e a quel tempo invece le braccia di Napoleone s’allargavano per mezza Europa e per tutta Italia a sommoverne, a risvegliarne le assopite forze vitali. Bastava ubbidire, perchè una attività miracolosa si svolgesse ordinatamente dalle vecchie compagini della nazione. Non voglio far pronostici; ma se si fosse continuato così una ventina d’anni ci saremmo abituati a rivivere, e la vita intellettuale si sarebbe destata dalla materia, come nei malati che guariscono. A vedere il fervore di vita che animava allora mezzo il mondo, c’era da perder la testa. La giustizia s’era impersonata una ed eguale per tutti; tutti concorrevano omai secondo la loro capacità al movimento sociale; non si intendeva, ma si faceva. S’avea voluto un esercito, e un esercito in pochi anni era sorto come per incanto. Da popolazioni sfibrate nell’ozio, e viziate dal disordine, si coscrivevano legioni di soldati sobrii, ubbidienti, valorosi. La forza comandava il rinnovamento dei costumi; e tutto si otteneva coll’ordine, colla disciplina. La prima volta ch’io vidi schierati in piazza i coscritti del mio dipartimento credetti avere le traveggole; non credeva si potesse giungere a tanto, e che così si potessero mansuefare con una legge quei volghi rustici, quelle plebi cittadine, che s’armavano infino allora soltanto per batter la campagna, e svaligiare i passeggieri.

Da questi principii m’aspettava miracoli, e persuaso d’essere in buone mani non cercai più dove si correva per ammirare il modo. Vedere quando che sia la mia Venezia armata di forza propria, e assennata dalla nuova esperienza riprendere il suo posto fra le genti italiche al gran consesso dei popoli, era il mio voto, la fede di tutti i