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capitolo decimottavo. 321

veva cadermi sbasita dinanzi. Invece non ci badò quasi; perchè per intendere il merito di cotali sforzi bisogna esserne capaci, ed ella, benedetta, avea più buchi nelle tasche e nelle mani che non ne abbia nella giubba un accattone romagnuolo. Soltanto fece due occhioni tondi tondi sentendo nominare quattrocento scudi; pareva che da un pezzo ella avesse perduto l’abitudine di udir perfino ramentare sì grossa somma di danaro. Al fatto per altro non fu tanto grossa come si credeva. Abiti, cappellini, smanigli, gite, rinfreschi mi misero perfettamente in corrente colla paga, e gli scudi non mi si invecchiavano più di quindici giorni nel taschino.

Svagata di qua di là, la Pisana mi scoperse in breve un altro lato nuovissimo del suo temperamento. Diventò la più allegra e ciarliera donnetta di Bologna; ne teneva a bada quattro, sei, otto; non si chetava nè si stancava mai; non si sprofondava nè in un’osservazione, nè in un pensiero, nè in una sbadataggine a segno di dimenticarsi degli altri; anzi sapeva così bene distribuire parolette e sorrisi, che n’era un poco per tutti e troppo per nessuno. Poteva fidarmi di lei, ed erano finite le tormentose fatiche di Ferrara. Tutti intanto parlavano chi della cugina, chi della moglie, chi dell’amante del signor intendente; v’aveva chi volea sposarla, e chi pretendeva sedurla o rapirmela. Ella s’accorgeva di tutto, ne rideva garbatamente, e se il brio lo dispensava ogni dove, l’amore poi lo serbava per me. Donne così fatte piacciono in breve anche alle donne, perchè gli uomini si stancano di cascar morti per nulla e finiscono col corteggiarle per vezzo, tenendo poi saldi i loro amori in qualche altro luogo. Così dopo un mese la mia Pisana, adorata dagli uomini, festeggiata dalle donne, passava per le vie di Bologna come in trionfo, e perfino i birichini le correvano dietro gridando: — È la bella veneziana! è la sposa del signor intendente! — Non