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320 | le confessioni d’un ottuagenario. |
sta parola di moglie, perchè mi balenò in capo che le promesse giurate appiè dell’altare potessero per avventura contar qualche cosa. Ma diedi di frego a questo scrupolo con somma premura. — Sì, sì; — ripigliai — c’è giustizia che sua moglie resti appiccicata a lui, come un vivo a un cadavere?... Nemmeno per sogno!... Oh per bacco; penserò io a distaccarli, a terminare questo mostruoso supplizio. Dopo tutto, anche non volendo dire che la carità principia da noi stessi, non è forse secondo le regole di natura ch’egli muoia piuttosto che io? Senza contare che io ne morrò davvero; ed egli sarà capace di tirar innanzi anni ed anni a questo modo, l’imbecille!... —
Afferrai la mia magnifica penna d’intendente, e scrissi un tal letterone che avrebbe fatto onore ad un re in collera colla regina. Il succo era, che se ella non veniva più che presto a rimettermi un po’ di fiato in corpo, io, la mia gloria, la mia fortuna saremmo andati sotterra. Questa mia lettera rimase senza risposta un paio di settimane, in capo alle quali quand’appunto io pensava seriamente ad andarmene, non dirò sotterra, ma a Venezia, capitò inaspettata la Pisana. Aveva il broncio della donna che ha dovuto fare a modo altrui, e prima di ricevere nè un bacio, nè un saluto, volle ch’io le promettessi di lasciarla ripartire a suo grado. Poi vedendo che questo discorso mi toglieva metà del piacere di sua venuta, mi saltò colle braccia al collo, e addio signor intendente! — Io era impazientissimo di farle osservare tutti gli agi annessi alla mia nuova dignità; un sontuoso appartamento, portieri a bizzeffe, olio, legna, tabacco, a spese dello Stato. Fumava come il povero mio padre per non lasciar indietro nessun privilegio, e mangiava d’olio tre giorni per settimana come un certosino; ma avea messo da un canto una bella sommetta per far figurar degnamente la Pisana nella società bolognese; era pel mio temperamento una tal prova d’amore, che la do-