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capitolo decimottavo. 315

mie mire sarebbero volte ad allargare fino a Venezia la Repubblica Italiana. E questa fu la scusa della mia pazzia.

Impiantato a Bologna con questi grandi propositi pel capo fui un intendente di finanza molto facondo e munifico: voleva prepararmi la strada alle future grandezze: seppi al contrario in seguito, che per cotali gonfiamenti mi chiamavano, nel loro gergo maligno bolognese, l’intendente Soffia. Dopo qualche mese di boriosa beatitudine, e di ostinato lavoro nella sana disposizione dell’imposte, cosa insolita nella Legazione, cominciai a credere che non fossi ancora in paradiso, ed a sperare che il ritorno della Pisana avrebbe supplito a quel tanto che sentiva mancarmi. Infatti non due, non tre, ma sei mesi erano trascorsi dalla sua partenza da Ferrara, e non solo non tornava, ma da ultimo anche dopo il mio passaggio a Bologna, scarseggiavano le lettere. Fu gran ventura che avessi il capo nelle nuvole, altrimenti l’avrei dato nelle pareti. La Pisana aveva questo di singolare nel suo stile epistolare, che non rispondeva mai subito alle lettere che riceveva; ma le metteva da un canto, e poi le riscontrava tre, quattro, otto giorni dopo, sicchè, non ricordandosi ella più di quanto aveva letto, la risposta entrava in materia affatto nuova, e si giocava alle bastonate, alla guisa dei ciechi. Molte e molte volte io le aveva scritto ch’era stufo di restar solo, che non sapeva che pensare di lei, che si decidesse a tornare, che mi scoprisse almeno la vera cagione di quella inconcepibile tardanza. E nulla! Era un battere al muro. Mi rispondeva di volermi bene più che mai, che io badassi a non dimenticarmi di lei, che a Venezia si annojava, che sua mamma stava proprio benino, e che sarebbe venuta appena le circostanze lo permetterebbero.

Io riscriveva a posta corrente, domandando quali fossero queste circostanze, e se le abbisognavano denari, o se non poteva venire per qualche gran motivo, e che lo