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capitolo decimottavo. 311

giorni che la Pisana s’occupava sempre di me, e di sorvegliarmi come un ragazzaccio che meditasse qualche scappata; allora, o fingeva di non m’accorgere di una cotal diffidenza, o ne metteva il broncio, ma davvero che ne aveva un gusto matto, perchè poteva riposarmi delle fatiche passate e preparar lena pel futuro. Se mai vi fu amante o marito che si affannasse per ben governar la sua donna senza farle sentire il peso delle redini, fui certo io in quel tempo vissuto a Ferrara. I galanti papallini, i lindi ufficialetti francesi andavano dicendo; — Che buona pasta d’uomo! — ma mi avrebbero forse voluto un po’ più fuori dei piedi; e li pestassi anche e facessi il cattivo, non se l’avrebbero legata al dito. Ero, per dirla tutta, un buon incommodo; e qui stava il peggio, chè non potevano lagnarsene, nè appormi la ridicolaggine d’un Otello finanziere.

A rompere questo armeggio di schermi e di difese cascò in mezzo a noi la notizia d’una malattia della contessa di Fratta. Era il conte Rinaldo che la partecipava alla Pisana senza aggiungere commenti: diceva soltanto che non potendo la reverenda Clara uscir di convento, sua madre rimaneva sola, affidata alle cure certo poco premurose d’una guattera: sapendo poi la Pisana a Ferrara, avea creduto dover suo trascendere ogni riguardo, e farle nota questa grave disgrazia che li minacciava. La Pisana mi guardò in viso; io senza por tempo in mezzo dissi: — Bisogna che tu vada! — Ma vi assicuro che mi costò assai il dirlo; e fu un sacrifizio all’opinione pubblica, che altrimenti m’avrebbe tacciato di snaturare una figliuola ne’ suoi più doverosi riguardi verso la madre. La Pisana invece la tolse pel cattivo verso; e benchè io credo che se avessi taciuto io, ella avrebbe parlato come me, pure si diede a brontolare, che già ero stanco di lei, e che non cercavo nulla di meglio che un appiglio qualunque per levarmela d’attorno. Ne converrete che fu una ingiustizia solenne.