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310 | le confessioni d’un ottuagenario. |
ambizione non mi sorrideva più nè vicina nè sicura, allora tornava naturalmente col desiderio al mio orticello, alla mia siepe, dove almeno il vento non tirava troppo impetuoso, e dove sarei vissuto preparando i miei figliuoli a tempi meglio operosi e fortunati. Io non aveva nè la furia cieca e infrenabile d’Amilcare, che slanciata una volta non poteva più indietreggiare, nè l’instancabile pertinacia di Lucilio che respinto da una strada ne cercava un’altra, e attraversato in questa se ne apriva una di nuova sempre per tendere a uno scopo generoso sublime, ma alle volte dopo quattr’anni di sudori più incerto e lontano che non fosse dapprincipio. Per me vedeva quella gran via maestra del miglioramento morale, della concordia, e dell’educazione, alla quale si doveva piegare ogniqualvolta le scorciatoie ci avessero fuorviato. Mi sarei dunque messo in quella molto volentieri per uscirne soltanto quando un bisogno urgente mi chiamasse. Invece la sorte mi faceva battere la campagna a destra ed a mancina. L’anno prima bocca inutile a Genova, allora segretario a Ferrara; i geroglifici del mio pronostico si disegnavano con caratteri tanto varii, che a volerne comporre una parola bisognava stiracchiare affatto il buon senso.
Fortuna che la Pisana mi dava frequentissimi svagamenti da queste mie melensaggini. Le sue rappresaglie donnesche col capitano Minato, e le bizzarrie continue che davano a parlare per un mese alla già sordo–muta società di Ferrara, mi tenevano occupato per quelle poche ore che mi restavano libere dal trebbiatoio dell’Uffizio. Passare dalle somme, dalle sottrazioni e dalle operazioni scalari delle imposte, agli accorgimenti strategici d’un amante geloso, non era impresa da cavarsene come a sorbir un uovo. Anzi mi faceva mestieri tutta la ginnastica dello spirito, e tutta la prontezza acquistata in simili evoluzioni da quindici e più anni d’esercizio. Del resto v’aveano