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capitolo decimoprimo. | 23 |
prese con un bascià o col gran visir, credo che sputeresti meno filosofia, ma ci vedresti meglio e più da lontano. La grossa furberia dei mamalucchi c’insegna a conoscere quella sottilissima dei cristiani. Credilo a me che l’ho provato. E non l’ho provato per nulla; giacchè lavorava al mio buon fine, ed ora sarei in ballo io, se tornando a Venezia non mi fossi risovvenuto di te. Figurati che allora ho pensato: Per Allah! che la Provvidenza ti manda la palla in buon punto! Tu eri vecchio, ed essa ti ringiovanisce di quarant’anni con un giochetto di mano. Coraggio, Bey. Cedi il posto al cavallo più giovine, e giungerete prima! — In poche parole, Carlino, io ti ho preso per mio figlio certo e legittimo, e ho voluto cederti, anche prima di morire, l’eredità delle mie speranze. Sarai tu tale da raccoglierla?... Ecco quello che si vedrà in breve.
— Parlate, padre mio; — soggiunsi io vedendo prolungarsi la pausa dopo quella gran chiacchierata mezzo maomettana.
— Parlare, parlare!... non è tanto facile quanto credi. Son cose da capirsi a volo. Ma pure, veduta la tua ignoranza, guarderò di spiegarmi meglio. Sappi dunque che io ho qualche merito con questi signori infranciosati, e cogli stessi Francesi che reggono ora le cose d’Italia. Meriti arcani, lontanetti se vuoi, ma pur sempre meriti. Di più mi fanno corona alcuni milioni di piastre che non corteggiano male coi loro raggi brillantati il fuoco centrale della mia gloria. Carlino, io ti cedo tutto, io dono tutto a te, purchè tu mi assicuri un divano, una pipa, e dieci tazzine di caffè al giorno. Ti cedo tutto pel maggior lustro di casa Altoviti. Che cosa vuoi? È la mia idea fissa! Avere un Doge in famiglia! — Ti assicuro che ci riesciremo se vorrai fidarti di me!
— Che? io... io Doge? — sclamai colla voce sospesa e non osando quasi respirare. — Vorreste che di punto in bianco io diventassi Doge?