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voneggiava tutto per la contentezza. Ma quand’io gli accennava così in ombra la ragione di quelle carezze, s’imbrunava in faccia, brontolando che la sua padrona non aveva altri gatti e che buon per lui, giacchè al secondo rischio Dio sa cosa poteva avvenire.

Crescevano intanto le strettezze dei viveri, cresceva la pressura degli assedianti e non si combatteva più per alcuna speranza di libertà o d’indipendenza. Che voleva Massena? Far di Genova una nuova Pompei popolata di cadaveri invece che di scheletri, o più che coll’armi, colla paura della pestilenza allontanare i nemici dalle mura combattute? — Era un lamento, un furore universale. Egli solo, il generale, aveva le sue idee per ritardare ad ogni costo d’un mese, d’un giorno, la resa della piazza: Bonaparte in quel mezzo avrebbe raccolto gli ultimi ardori repubblicani di Francia per incendiarne una seconda volta l’Europa. A forza di disagi, di patimenti, di costanza e di crudeltà, si giunse ai primi di giugno, quando già Bonaparte era precipitato come un fulmine a turbare le tranquillissime guerricciole di Melas contro Suchet, e s’erano rialzate in Milano le speranze degli Italiani. La resa di Genova si chiamò convenzione e non capitolazione, gli ottomila uomini di Massena passarono opportuni ad ingrossare l’armata del Varo, e dai nuovi conquistatori della Liguria non si parlò allora di ristaurare l’antico governo, come non se ne parlava punto in Piemonte. Ma era ben tempo quello da pensare a ristaurazioni! Melas a marce forzate raccozzava i corpi sparsi dell’esercito sulle rive della Bormida, proprio rimpetto a quel punto, dove Napoleone prima di partir da Parigi avea messo il dito sulla carta geografica dicendo; Lo romperò qui! E così questi s’affrettava a lasciar Milano, a passar il Po, a vincere col luogotenente Lannes a Montebello, a stringer il nemico intorno ad Alessandria. Stranissima posizione di