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290 | le confessioni d’un ottuagenario. |
di gramigna, e di zuccherini, de’ quali era in Genova grande abbondanza, perchè formavano un importantissimo ramo di commercio. S’aggiunsero febbri e petecchie per ultimo conforto; ma appunto in casa nostra cominciò a rifiorir la salute, quando si corrompeva di fuori. I zuccherini conferivano alla Pisana; ella racquistò le belle rose delle guance e il suo umorino strano e bisbetico che durante la malattia s’era fatto così buono ed uguale da farmi temere qualche grosso guaio. Allora mi racconsolai, giudicando che nulla v’avea di guasto, e che i visceri erano quelli di prima: anzi la consolazione andò tant’oltre, che cominciai anche a spaventarmene. Alle volte saltava su per mordere come una vipera; e s’ingrugnava e aveva il coraggio di tener il broncio un’intera giornata. Voleva poi tutto a modo suo, e dal silenzio ostinato passava in men ch’io non dico ad una garrulità quasi favolosa. Così ella ebbe il vanto di cancellare dalla mia memoria tutti quegli anni vissuti frammezzo e di ricondurmi alle tempestose fanciullaggini di Fratta. Davvero che a chiuder gli occhi avrei creduto di essere non già a Genova, quasi veterano d’una guerra lunga e accanita, ma in riva alle fosse delle nostre praterie a bucar chiocciole e a lustrar sassolini. Mi sentiva imbambolire come un bisnonno; e sì che non era ancora padre nè aveva premura di diventarlo. Questo era per esempio un punto sempre controverso tra me e lei: ch’ella avrebbe voluto un bambino ad ogni costo, ed io per quanto mi scaldassi a dimostrarle che nella nostra posizione, in quel luogo, in quei tempi, un figliuolo sarebbe stato il peggiore degli imbrogli, dovevo sempre metter le pive nel sacco. Altrimenti pel gran sussurro mi sarebbe crollato il soffitto sul capo. Cominciarono i soliti dissapori, gli alterchi, le gelosie: tutto per quel benedetto bambino; eppur vi giuro che se la Provvidenza non ce lo mandava, io non ce ne aveva nè colpa nè rimorso.