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capitolo decimoprimo. 21

temporanei: sorretti dalla confidenza nelle proprie dottrine, essi salgono facilmente ad abitare le nuvole: e se non disperano prima per discrezione di criterio, disperano poi per necessità d’esperienza. Amilcare intanto era uscito di prigione, e secolui avevamo rappiccato l’antica amicizia; un altro invasato anche lui, che vedeva nei Francesi i liberatori del mondo, e fin lì forse il ragionamento si reggeva; ma zoppicava poi, quando li credeva i liberatori di Venezia. Ciò non toglie che Amilcare non cooperasse ad infervorare e persuadere maggiormente anche me; poichè il suo ardore non era chiuso come quello di Lucilio, ma tendeva a dilatarsi con tutta l’espansione della gioventù. Insieme ad Amilcare, indovinate mo’ chi fu liberato dagli artigli dell’inquisizione? — Il signor di Venchieredo. Non ve l’aspettavate forse, perchè il suo delitto non era certo di favoreggiare i Francesi. Ma io credo che, o avesse dal carcere intelligenza con questi, o che la grazia fosse concessa anche a lui per isbadataggine, o che la sua pena fosse prossima a finire, il fatto sta che Lucilio mi diede sue novelle, aggiungendo misteriosamente che dalla Rocca d’Anfo egli era corso a Milano, dove era allora la stanza del generale Bonaparte, e dove si agitavano diplomaticamente i destini della Repubblica veneta.

Una sera (già si correva precipitosamente all’abisso del 12 maggio) mio padre mi chiamò nella sua camera, dicendo che aveva grande cosa a comunicarmi, e che stessi bene attento e ponderassi tutto, perchè dalla mia destrezza dipendeva la fortuna mia e lo splendore della famiglia.

— Domani — egli mi disse — si compirà la rivoluzione a Venezia. —

Io diedi uno strabalzo di sorpresa, perchè colla duttile arrendevolezza del Maggior Consiglio, e i negoziati pendenti ancora a Milano, non mi entrava quel bisogno di rivoluzione. —