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capitolo decimosettimo. 275

del giorno giungemmo alle prime vedette del campo repubblicano di Schipani, ove Giulio ed Amilcare furono sorpresi e contenti di udire i pericoli da me corsi, e fortunatamente superati. Le feste, i baci, le gioje, le congratulazioni furono infinite: ma in mezzo a tutto ciò essi recavano in fronte una profonda mestizia, per la prossima e inevitabile rovina della Repubblica: io celava un altro, benchè diverso lutto nel cuore, per la tragica morte di mio padre. Il primo col quale m’apersi fu Lucilio. Egli m’ascoltò più addolorato che sorpreso, e — Pur troppo, soggiunse, dovea finire così! Anch’io fui partecipe di cotali errori!... anch’io piango ora tanto tempo, tanti ingegni tante vite così inutilmente sprecate!... Attendi al mio presagio!... Presto un simile caso funesterà le vicinanze d’Ancona!... —

Non capii a che volesse alludere ma feci tesoro di quelle parole, e mi ricordai alcun mese dopo quando Lahoz, generale cisalpino, disertore dai Francesi per la fede rotta da essi alla libertà della sua patria, si volgeva ai sollevati Romagnuoli ed agli Austriaci per scrollare l’ultimo baluardo che rimanesse alla repubblica in quella parte d’Italia, la fortezza d’Ancona. Ammazzato dai suoi fratelli stessi che militavano fedeli sotto il francese Monnier, pronunciava prima di morire grandi parole di devozione all’Italia: ma moriva in campo non italiano, fra braccia non italiane. E così cadeva miseramente l’anima di quella società secreta, che diramandosi da Bologna per tutta Italia si proponeva di tutelarne l’indipendenza, fra l’antagonismo delle varie potenze che se la disputavano. Vollero appoggiarsi a questi per debellar quelli; bisognava appoggiarsi a nessuno, e saper morire.

Giungemmo a Napoli colla colonna di Schipani, ributtata sulla capitale dalle turbe sempre crescenti di Ruffo. La confusione, il tumulto, la paura erano agli estremi. Tuttavia si disposero presidii nelle torri, nei castelli, e se non vi fu