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capitolo decimosettimo. 273

perii, vagai a lungo per quella Puglia stessa dove aveva regnato cinque o sei giorni prima poco men che padrone. Vi confesso che quella vita mi garbava pochissimo, e che siccome i ferri alle mani ed ai piedi m’impedivano di fuggire, null’altra speranza coltivava che quella di essere alla bella prima impiccato. Una sera peraltro, mentre giungevamo al fondo di Andria, sede della mia passata grandezza, un pastore mi si avvicinò come per farmi insulto ad usanza degli altri, e dopo avermi detto a voce alta le più sfacciate indegnità che fantasia napoletana possa immaginare, aggiunse tanto sommessamente che appena lo intesi: — coraggio, padroncino! in castello si pensa a voi! — Mi parve allora ravvisare in esso uno dei più fidati coloni del Carafa; e poi levando gli occhi al castello, mi stupii infatto di vederne le finestre illuminate, sendochè pochi giorni prima io l’avea lasciato chiuso e deserto, e il suo padrone si trovava ancora negli Abruzzi, anzi lo dicevano assediato dagli insorti nella cittadella di Pescara. Tuttavia non avendo che fare di meglio, per quella sera mi diedi a sperare. Quando fummo verso la mezzanotte, uno di quei briganti venne a togliermi dal pagliajo ove m’aveano confitto, e fatto vedere alle guardie un ordine del capitano, mi sciolse i ferri dalle mani e dai piedi, e mi disse di seguirlo lungo la via. Giunti ad una casipola lontana da Andria un trar di mano, mi consegnò ad un uomo piuttosto piccolo e misteriosamente intabarrato, che gli rispose asciutto asciutto un — Va bene! e il brigante tornò per dov’era venuto, ed io rimasi con quel nuovo padrone. Era così in bilico se di rimanere in fatti o di darmela a gambe, quando un’altra persona, che mi parve tosto una donna, sbucò di dietro a quello del tabarro, e mi si precipitò addosso coi più caldi abbracciamenti del mondo. Non conobbi ma sentii la Pisana. Ma quello del tabarro non fu contento di questa scena, e ci ricordò che non v’avea tempo