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capitolo decimosettimo. 271

quelle spoglie già morte. Lo baciai in fronte; e non so se pregassi, ma le mie labbra mormorarono qualche parola che non ho poscia ripetuto mai più. Sarei restato lunga pezza in compagnia dell’estinto e dei suoi ultimi pensieri che formicolavano in me, se la sua stessa immagine non mi avesse richiamato a quei sublimi doveri, dei quali egli era stato il martire ignoto, inconsapevole, errante qualchevolta, fermo e incrollabile sempre.

— Padre mio, — pensai, — tu mi saprai grado che io mi privi del mesto conforto di accompagnarti alla tua ultima dimora, per attendere alla salute omai disperata della Repubblica nostra! —

Parve perfino che sulle sue labbra arieggiasse un sorriso di assentimento. Io mi precipitai fuori della stanza col cuore che mi andava a pezzi. A fatica feci accettare alcune doble al vecchio prete pei funerali, e per suffragar l’anima del defunto: indi tornai all’osteria, che già il Martelli avea disposto la piccola schiera per la partenza; ed erano molto inquieti di non vedermi comparire. L’alba scherzava sul mare spargendo dalle bianche sue dita tutti i colori dell’iride; ma il scirocco della sera prima aveva lasciato le onde piuttosto sconvolte, e all’orizzonte non si vedeva più un albero solo di nave. La campana della chiesa chiamava i pescatori alla messa, le femminette cianciavano sulla porta dei sofferti spaventi: e qualche mozzo mattiniero inalberando la vela, cantava il ritornello della sua barcarola. Nulla nulla in quella terra, in quel cielo, in quella vita, s’accordava compassionevolmente al lutto d’un figlio, che avea chiuso gli occhi al cadavere di suo padre!...

— Dove sei stato?... cos’hai? — mi chiese Martelli piegandosi sulla criniera del suo cavallo.

Io balzai d’un salto sul mio, e cacciandogli gli sproni nel ventre, rovinai fuori a galoppo senza rispondergli: