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capitolo decimosettimo. 269

con uno strido sul letto dove mio padre, mortalmente ferito alla gola, combatteva ostinatamente colla morte.

— Padre mio! padre mio — io mormorava. Non aveva nè fiato nè mente a pronunciare altra parola. Quel colpo era così imprevisto, così terribile, che mi toglieva affatto quell’ultimo fiato di coraggio rimastomi.

Egli tentò allora sollevarsi sul gomito e vi riuscì infatti per cercarsi colla mano non so che cosa intorno alla cintura. Coll’ajuto del prete, si cavò di sotto alle larghe brache albanesi una lunga borsa di pelle, dicendomi con molta fatica che quello era quanto poteva darmi d’ogni sua sostanza, e che del resto chiedessi ragione al Gran Visir... Era per soggiungere un nome, quando gli uscì dalla gola un lungo fiotto di sangue, e ricadde sui guanciali respirando affannosamente.

— Oh per pietà, padre mio! — gli venivo dicendo. — Pensate a vivere! non vogliate morire!... abbandonarmi ora che tutti mi hanno abbandonato!...

— Carlo; — soggiunse mio padre, e questa volta con voce fioca ma chiara perchè quell’ultimo sbocco di sangue pareva lo avesse sollevato di molto. — Carlo, nessuno è abbandonato quaggiù, finchè vivono persone che non si devono abbandonare. Tu perdi tuo padre, ma hai una sorella, ignota finora a te...

— Oh no, padre! io la conosco, io la amo da un pezzo. È l’Aglaura!...

— Ah la conosci e la ami? meglio così! Muojo più contento di quello che avrei creduto... Senti, figlio mio, un ultimo ricordo voglio lasciarti come preziosa eredità... Mai, mai, mai, per cambiar d’uomini o di tempi, non appoggiare la speranza d’una causa nobile, generosa, imperitura, all’interesse, all’avarizia altrui. Io, vedi, in questa idea falsa inetta triviale consumai le mie ricchezze, l’ingegno, la vita, e ne ebbi... ne ebbi la certezza di aver