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266 le confessioni d’un ottuagenario.

cercava avvicinarsi al porto, ma le onde un po’ grosse lo impedivano. Entrati in paese trovammo lo scompiglio al colmo. Turchi e Albanesi sbarcati con qualche scialuppa s’eran messi a saccheggiare, a massacrare con tanta crudeltà, che pareva essere tornati ai tempi di Bajazette.

Io imprecai furiosamente alla barbarie di coloro che davano una sì bella parte d’Italia in preda a quei mostri, e mi avventai con Martelli e coi compagni a una tremenda vendetta. Quanti ne incontrammo tanti furono tagliati a pezzi dalle nostre spade, calpestati dai cavalli, e fatti a brani dalla folla disperata che ci si ingrossava alle spalle. Sulla piazza ove si era già ritratto il maggior numero per riguadagnare le lancie e buttarsi in mare, la carneficina fu più lunga e più terribile. Fu quella l’unica volta ch’io godetti barbaramente di vedere il sangue dei miei simili spillar dalle vene, e i loro corpi sanguinosi ammucchiarsi boccheggianti, e ferirsi l’un l’altro nelle convulsioni dell’agonia. La folla urlava frenetica e si saziava di sangue; già taluni più arditi s’erano impadroniti delle lancie; ogni scampo era intercetto; l’ultimo di quegli sciagurati venne ad infilzarsi da sè nella mia bajonetta; e subito cento mani rabbiose mi contesero lo schifoso trofeo. Molfetta era salva. I nipoti di Solimano avevano imparato a loro spese, che non si può senza danno andar nella storia a ritroso: e che Maometto II, (ne chieggo scusa alla cronologia) è da essi tanto remoto quanto Trajano da noi. Intanto le strade e la piazza riboccavano di gente, che correva alla chiesa per ringraziar la Madonna di quella vittoria. Unitamente alla Beata Vergine del Presidio, i nomi dei capitani Altoviti e Martelli per migliaja di bocche erano levati a cielo.

Avendo noi lasciato ordine a Bisceglie che ci si desse premuroso annunzio d’ogni novità, e non vedendosi alcuni, e volendo d’altra parte concedere qualche riposo alla nostra gente che oltremodo ne bisognava, ci ritraemmo ad