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262 le confessioni d’un ottuagenario.

tissimi. Ettore aveva l’ingenuità e la docilità d’un vero repubblicano; non vide che gatta ci covava sotto queste melate parole, e s’avviò per gli Abruzzi. Soltanto siccome gli sembrava che la provincia senza di lui non fosse per rimanere tanto fedele e sicura quanto si figuravano, così di suo capo dispose che io e Francesco Martelli altro ufficiale della legione, ci stessimo nelle Puglie alla testa d’una piccola guargioncella di bosco, che poteva giovar molto contro le insorgenze parziali che avrebbero ripullulato. Egli fidava grandemente in me; e non senza lagrime di riconoscenza e d’orgoglio, io noto la fiducia riposta in me da un tant’uomo. Che l’anima sua generosa e benedetta abbia in altro luogo quel premio, che quaggiù non ottenne benchè lo avesse valorosamente meritato!

Martelli era un giovane napoletano che aveva abbandonato moglie, figli ed affari per brandir la spada a difesa della libertà. Ambidue usciti nei campi dal fôro, ambidue d’indole mite ma risoluta, ci eravamo stretti di fervidissima amicizia fin dalla fazione di Velletri. Egli era stato uno di quei miei compagni che avean scommesso contro di me per la visita del convento; tantochè, siccome quella scommessa era stata d’una cena e d’una festa di ballo per tutti gli ufficiali della legione, e nessuno avea pensato a pagarla, egli si tolse il ghiribizzo di saldare il debito di tutti in Puglia, quando a tutt’altro si pensava che a cene ed a feste di ballo. Tornando coi nostri cinquanta uomini dallo aver inseguito alcuni briganti, che sotto colore di realisti eran venuti a saccheggiare una cascina poco lontana, trovai una sera il castello d’Andria illuminato, e la gran sala disposta pel ballo, e dentro buona copia di forosette e di donzelle dei paesi vicini le quali per darsi spasso una sera vollero ben dimenticarsi che noi eravamo repubblicani scomunicati. Martelli m’additò la festa con un gesto principesco, dicendo: eccoti pagato del debito di Velletri, e avrai