Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
trattare col Bonaparte sui cambiamenti nella forma del governo. Il Pesaro, indignato di sì vigliacca deliberazione, proruppe colle lagrime agli occhi in parole di compassione sulla rovina della patria, già sicura; e dichiarò di voler partire quella notte stessa da Venezia per ritirarsi fra gli Svizzeri. Il che egli non fece poi: e credo che andasse per la posta a Vienna. Davvero che a me non basta l’animo di palliare per un misero orgoglio nazionale la viltà buffonesca di tutte queste scene. Raccolgono esse un grande e severo insegnamento. Siate uomini se volete essere cittadini; credete alla virtù vostra se ne avete, non all’altrui che vi può mancare, non all’indulgenza o alla giustizia d’un vincitore, che non ha più freno di paure e di leggi.
Il primo di maggio colla mia toga e la mia parrucca io entrai nel Maggior Consiglio a braccetto del nobiluomo Agostino Frumier, secondogenito del senatore. Il primo apparteneva al partito di Pesaro e sdegnava far comunella con noi. Quel giorno il consesso era scarso; appena giungeva al numero di 600 votanti, senza il quale, per legge, nessuna deliberazione era valida. I vecchi erano pallidi non di dolore ma di paura, i giovani ostentavano un portamento altero e contento; ma molti sapevano dentro a sé di essere costretti a darsi la zappa sui piedi, e quell’allegria non era sincera. Si lesse il decreto che dava facoltà ai negoziatori di mutare a lor grado la Repubblica, e che prometteva al Bonaparte la liberazione di tutti gli arrestati politici dal primo ingresso delle armate francesi in Italia. In questa ultima clausola io conobbi l’influenza del dottor Lucilio, pensai ad Amilcare, e fui forse il solo che ne gioisse non indecorosamente. Del resto era un capo d’oca a non intendere la vigliaccheria di quella promessa, e a trovarla giusta per un sentimento affatto privato. Il decreto fu approvato con soli sette voti contrarii; altri quattordici ne furono di non sinceri, cioè di quelli che né accoglievano né