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capitolo decimosesto. 243

La sollevai sulle spalle, e via con essa tra le fiamme, tra i solai scricchiolanti, le mura rovinose, e il rimbombo delle volte crollanti!... Scesi sul dinanzi dove le vampe lasciavano ancora un passaggio; ma da destra e da sinistra sentiva da un’aria infuocata affogarmi alla gola. Un ultimo sforzo! Chi dirà mai ch’io cada con un tal peso sulle braccia?... Chi dirà mai ch’io abbandoni alle fiamme queste belle membra, ch’io ammirai tante volte come l’opera più perfetta della natura, e questo volto incantevole dove la generosa anima sua trapela lampeggiante, come la folgore tra le nubi?... Io avrei traversato un vulcano, senza paura di allentare d’un capello la stretta con cui cingeva quel corpo prezioso e quasi esanime. Foss’ella morta, e sarei morto io pure per poter pensare nell’istante supremo: son caduto per lei e con lei!... Timori, sospetti, gelosie, vendette che mi avevano gonfiato il cuore un istante s’erano dileguati; l’amore era rimasto solo, colla sua fede che rinasce dalle ceneri come la fenice, colla sua forza che vince la stessa morte perchè la disprezza e l’oblia.

Colla Pisana in collo, colla disperazione nel cuore, la minaccia più spaventosa negli occhi, rotando forsennato una spada, sgominai una fila di nemici che si scaldava spensierata all’incendio del convento. Mi ricordo aver traveduto fra essi un frate che pregava il cielo, e arringava devotamente i soldati. Era il priore del convento che avea guidato i soldati della Santa Fede a quella tremenda vendetta; egli diceva che i nemici della religione erano rimasti arrostiti nel proprio unto. Ma l’ultimo di questi invece che non era nemico della religione, ma dei fanatici che le mettono l’armi alla mano, sfuggiva miracolosamente al loro furore. Se Dio guardava in quel momento sopra Velletri, certo che i suoi favori furono per la Pisana e per me. Sempre correndo, giunsi alle colline dov’era disposta l’imboscata del Carafa, ma là le sorti del combattimento erano state ben