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capitolo decimoprimo. 17

atrocità sopra i Francesi che la contaminarono. Giungono le furiose proteste di Bonaparte, e l’intimazione di guerra in tutta regola. Senatori, Savii, Consiglieri, e tutti, cominciano a credere che quello che ha durato molto possa anche finire; essi di buon accordo si danno attorno per provvedere di viveri la serenissima dominante; quanto alla difesa ci pensano poco, perchè a dirla chiara nessuno ci crede. Finalmente il generale Baraguay d’Hilliers cinge col suo campo l’estuario; le comunicazioni sono intercettate; Donà e Justinian, inviati al general Bonaparte, svelano le intenzioni di questo, che una nuova forma più libera e più larga sia introdotta nel Governo della Repubblica. Egli impone di più che l’ammiraglio del porto e gli inquisitori di Stato siano consegnati nelle sue mani, come colpevoli di atti ostili contro una nave francese, che voleva sforzare l’ingresso del porto di Lido. I signori Savii capirono l’avvertimento e si disposero umilmente a scrivere al generale di barba e di parrucca, come si dice a Venezia. Parve a loro che le deliberazioni del Maggior Consiglio fossero troppo lente alla stretta del bisogno, e improvvisarono una specie di magistratura funeraria, un collegio di becchini per la moribonda Repubblica, il quale si componeva di tutte le cariche componenti la Signoria, dei Savii di Consiglio, dei tre capi del Consiglio dei Dieci, e dei tre Avogadori del Comune, in tutto quarant’una persona, e il serenissimo Doge a capo, col titolo comodissimo di Conferenza. Intanto si ciarlava per Venezia che sedicimila congiurati coi loro pugnali fossero già appostati in città per rinnovare su tutti i nobili la strage degli innocenti. Figuratevi che conforto per la Conferenza! — Mi ricordo che con modi da furbo io domandai Lucilio di quello ch’egli credesse esservi di vero in quella voce, e che il dottore mi rispose squassando le spalle. — Oh Carlino mio! credete che siano pazzi i Francesi ad assoldare sedicimila congiurati reali, mentre facen-