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sfondato una porta con una piccola mina; il convento era invaso; uno contro dieci sarebbe stato vano il pensiero di resistere. Io allora, che mi sentiva nella coscienza tutto il rimorso di quella malaugurata fazione, mi slanciai coraggiosamente alla testa dei compagni. Poche parole, un pronto e buon esempio, e capii che mi avrebbero secondato a dovere.

— Amici, vadano le nostre vite, ma non cediamo il piano superiore!... Pensate all’onor vostro, all’onor della legione!... — Così dicendo m’era gettato fuori della guardaroba, e giunto sulla scala m’era ingegnato a barricarne la porta con armadii, con tavole ed altri mobili che potemmo raccozzare. I Napoletani salivano sicuri, ma trovarono tra le fessure alcune bocche di moschetto ben appostate, che li fecero dar indietro gli uni sugli altri.

— Coraggio, amici! — soggiunsi — un soccorso non può tardare!... — Infatti mi pareva impossibile che al rumore delle archibugiate il signor Ettore non ispiccasse taluno a vedere di che si trattava. Non mi sarei mai figurato che quel giorno appunto fosse destinato alla prima mossa dell’esercito napoletano, e che egli fosse da parte sua molto affaccendato a tenerne lontani gli scorridori, perchè la legione avesse campo di uscir da Velletri. Ad ogni modo ci adoperammo tanto bene dietro il buon riparo d’una doppia porta di quercia, che i nemici dimisero affatto il pensiero di salire per la scala. Ci avvedemmo peraltro ch’essi lo avevano dimesso per entrare in un altro più pericoloso ancora; pareva che avessero appiccato il fuoco sotto i nostri piedi: il fumo pei fessi del solajo penetrava nell’andito ove eravamo, e ci toglieva il respiro; poco dopo cominciarono a crepitare le travi, e le fiamme a farsi strada tra i mattoni arroventati. — Fuggimmo a precipizio nelle stanze vicine, e un minuto dopo quel pavimento crollava con fracasso spaventevole. Ma anche nelle altre stanze la