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capitolo decimosesto. 235

continenza, e sfrenarsi poi a farne di tutti i colori con la ghiottornia di chi fu digiuno per un pezzo. Ad esempio vi recherò Amilcare, il quale raccontava di non aver assaggiato vino infino ai vent’anni; dai vent’anni in su nessuno ne beveva tanto quanto lui. Lo stesso caso poteva esser succeduto al Carafa. Or dunque io credeva più ad un genuino e fiero innamoramento che a qualunque stregoneria, e sopra ciò fra me ed i compagni correvano frequenti alterchi, e perfino scommesse. Dopo la mia separazione da Lucilio mi era fatto così burbanzoso e intrattabile, che poco ci voleva a farmi saltare la mosca al naso: diedi dei capi guasti e dei credenzoni a chi vedeva dappertutto meraviglie e magie. Fui rimbrottato come uomo migliore a parole che a fatti; ed eccomi nella necessità di dimostrar loro che non era vero. D’altra parte il martello continuo, che mi pestava di dentro, e la noja di quella vitaccia poltra e bestiale mi rendevano incresciosa la quiete, e mi congratulai d’aver trovato un appiglio a muovermi, a fare non foss’altro delle corbellerie. Il capitano aveva proibito, pena la vita, che ufficiali o soldati, fuor quelli di fazione, s’avvicinassero al convento, ove avea fermato il quartier generale. Quel luogo era vicinissimo al confine; il nuovo esercito napoletano, per formare il quale s’eran tassati perfino i preti e le monache, s’addensava ogni giorno più nei finitimi confini dell’Abruzzo; qualche avvisaglia poteva nascere, anzi era già nata più per impazienza dei gregarii, che per deliberato volere dei capi; non voleva il Carafa che col disperdersi la legione da quella parte s’incontrasse qualche spiacevolezza affatto fuori di tempo. Ma questi dettami di prudenza sconcordavano assai dalla solita temerità, e il vero si era, ch’egli non voleva occhi importuni intorno al convento. Io giurai ai miei compagni che sarei andato, che avrei veduto, nascesse quel che poteva nascere, e una sera di domenica fu scelta pel gran cimento.