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capitolo decimosesto. 231

sistenze pretesche, di arbitrii francesi, di licenze popolari e di assassinii privati; un mettersi avanti di grandi ed onesti nomi per coprire l’infamia dei piccoli; continui mutamenti senza fede senza sicurezza, cagionati dalla rapacità di chi amava pescare nel torbido; e Francesi che bestemmiavano ai traditori italiani, e transteverini che insorgevano, gridando: Viva Maria!... Il sangue scorreva nei boschi, sulle maremme, nelle caverne; città e campagna s’armavano con egual furore; ma fin nei cunicoli del Culiseo, fin nei montani ricoveri, in braccio alla moglie, ai piedi dei vecchi genitori erano perseguitati i ribelli. Murat ammazzava, fucilava, impiccava; i superstiti andavano al remo, e chi li diceva martiri, chi galeotti.

Nessuna sementa maggiore di discordia e di ribellione future, che questa opinione dei popoli che cambia in altare il patibolo. Quattro commissarii del Direttorio francese eran venuti a risuscitare le vecchie parole di consolato, senato, tribunato e questura; togliendo loro autorità coll’adoperarle a coprire cose affatto nuove, e piuttosto che repubblicane, servili, pel precipizio con cui erano imposte. I cinque consoli si cambiavano ad ogni cambiar d’umore del generale francese; tuttavia la confederazione della Repubblica romana (grave nome a portarsi) fu celebrata coll’egual solennità della Cisalpina. E fu coniata una medaglia che portava sulla doppia faccia le due scritte: Berthier restitutor urbis, e Gallia salus generis humani. Alla prima sappemo quanto credere: la seconda, Dio lo voglia!

In un tanto disordine, anzi smembramento e tracollo della cosa pubblica, quali potessero essere argomenti da rendere ai Romani assetto di nazione civilmente e secondo i proprii bisogni ordinata, io certo non lo so. Per questo non mi dà il cuore di biasimare davvantaggio quegli uomini che vi accudirono allora, e con effetto impari certo ai disegni. V’hanno taluni dissesti morali ed economici nella