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capitolo decimosesto. 229

tessa pappava il frutto degli ottomila ducati e le bastava; il conte Rinaldo passava dall’ufficio alla Biblioteca, dalla Biblioteca alla tavola e al letto senza darsi pensiero che altri uomini vivessero al mondo: ambedue miserabili, miserabilissimi; ma non si curavano di affannarsi per gli altri. Convenite con me che se non eroismo fu certamente una bella costanza la mia, di starmene a ordinar piuoli e a comandar movimenti sul monte Pincio, mentre avrei corso e frugato tutto il mondo per trovar la mia bella! La amava, sapete, proprio più che me stesso; e per me che non vendo ciurmerie di frasi, ma faccio professione di narrare la verità, questo è tutto dire. Nonostante aveva il coraggio di metter innanzi la patria, e benchè facessi allora uno sforzo a inchiudere anche Napoli in quest’idea, Roma mi ajutava a vincer la prova. Roma è il nodo gordiano dei nostri destini, Roma è il simbolo grandioso e multiforme della nostra schiatta, Roma è la nostra arca di salvazione, che colla sua luce snebbia d’improvviso tutte le storte e confuse immaginazioni degli Italiani. Volete sapere se un cotale ordinamento politico, se quella cospirazione di civiltà e di progresso può reggere e portar buon frutto alla nazione nostra?... Nominate Roma; è la pietra di paragone che scernerà l’ottone dall’oro. Roma è la lupa che ci nutre delle sue mammelle; e chi non bevve di quel latte, non se ne intende. Nè voglio negare che il mirar troppo a Roma abbia fatto trascurare talvolta scopi più vicini ed accessibili, dei quali avremmo potuto giovarci come di gradini a ulteriore salite; ma certo il mirar troppo non fu nè tanto dannoso nè così disonorevole come il mirar nulla; e nessun periodo di storia italiana fu confuso ed illogico al pari di quello, che aggiunse mostruosamente all’Impero di Francia il Dipartimento del Tevere.

Intanto, giunto che fui a Roma, successe del mio dolore quello che d’ogni piccola cosa al soverchiar d’una